L’uscita del nuovo album dei King Crimson, il Live at the Orpheum di cui ho già parlato QUI, mi ha dato modo di rimestare nella discografia del gruppo di Fripp e soci ed una cosa che mi ha colpito è il numero impressionante di copertine disegnate dall’artista Pamela June Crook.
Pittrice dal curriculum internazionale, nonchè amica personale di Robert Fripp e consorte, la Crook nel 1997 realizza la copertina di Epitaph, cofanetto ormai celebre contenente concerti dei primissimi King Crimson, quelli di In the Court of the Crimson King. L’esperimento evidentemente funziona e così tra il 1997 ed il 2003 (e sporadicamente anche dopo) l’accoppiata King Crimson/PJ Crook danno alle stampe più di venti album.
Come ogni fan del gruppo sa, Robert Fripp ha sempre avuto una preoccupazione maniacale di immortalare qualsiasi suono prodotto dai King Crimson e a partire dagli anni ’90 ha iniziato a pubblicare una lunga serie di album con materiale vecchio e nuovo, inizialmente denominati “King Crimson Collectors’ Club”, ovvero edizioni speciali riservate agli iscritti al Crimson FanClub, poi resi accessibili a tutti.
Questi album hanno trasformato la discografia dei King Crimson in un qualcosa di spaventosamente vasto (ad oggi Discogs conta 112 album ufficiali) e molto simile ad un film di Quentin Tarantino.
Seguendo le uscite per data di pubblicazione, infatti, ci si trova continuamente a fare dei viaggi spazio-temporali in un arco di 45 anni. Per questo motivo la Crook, pur avendo collaborato effettivamente solo per un decennio con il gruppo, ha illustrato copertine di album che abbracciano tutta la loro carriera.
Qualche giorno fa, mentre scorrevo gli album della Saluzzi’s Home Record Collection in cerca di qualcosa da ascoltare (e su cui magari fare un post), mi sono accorto che quando qualche tempo fa parlai album con le copertine in bianco e nero mi sono dimenticato di due pezzi da novanta.
Forse perchè nella ricerca mi focalizzavo troppo sul colore nero senza fare caso a questi album quasi completamente bianchi, o forse perchè sono dischi così importanti che spesso finiscono per essere dimenticati (vai a capire i meandri della psicologia…).
Fatto sta che in questo blog non ho ancora mai parlato del White Album dei Beatles e di the Wall dei Pink Floyd.
Dopo quello sugli anni ’80, un’altro dubbio amletico mi assale:
E’ da un po’ di tempo che, senza dire niente a nessuno, sto sentendo e risentendo tutti gli album de Le Orme.
Su questo blog il gruppo veneto era già stato avvistato sulle sponde del Lago Maggiore ma all’epoca non mi ci sono fermato troppo. Qualche mese fa li ho riascoltati per caso nel bootleg Controcanzonissima dove suonano una versione strepitosa di Cemento Armato, che ricorda molto i Soft Machine del ’68, ed ho capito che era un gruppo che dovevo assolutamente approfondire.
E non mi sbagliavo.
Una cosa che mi ha sempre affascinato de Le Orme sono le copertine dei loro album, protagoniste dell’immaginario collettivo legato al Rock Progressivo Italiano. Ho pensato quindi di dedicare interamente un post a questo gruppo per parlare di un aspetto che ha contribuito non poco al successo del gruppo: per dirla all’inglese (che rende meglio) i loro Artwork.
Proseguo la rassegna degli album completamente in bianco e nero della SHRC iniziata nel post di venerdì.
Grazie alla programmazione dei post (funzione di WordPress gentilmente fattami scoprire da Skylyro) riesco a mantenere aggiornato il blog anche quando sono fuori. Fantastico! Ho il tempo quindi di pubblicare alcuni pezzi nuovi della Saluzzi’s Home Record Collection.
Mentre stavo fotografando l’album omonimo dei Velvet Underground ho notato che l’album ha una copertina interamente in bianco e nero – fronte, retro inclusi i loghi e l’etichetta della casa discografica.
E’ una caratteristica molto più frequente di quanto sembra.
Ho iniziato a cercare nella mia collezione e ne ho trovati tanti, molto diversi fra di loro ma accomunati da un certo fascino: il fascino del bianco e nero.